Sentiamo molto spesso parlare di dati, della loro importanza, del valore nascosto da essi e di come essi possano guidarci nelle nostre decisioni.
Tuttavia il lettore deve comprendere come il dato sia, dal punto di vista filosofico, solo il primo mattone con il quale costruire l’edificio della conoscenza. Iniziamo a porci innanzitutto la prima domanda fondamentale.
Cosa è un “dato”?
Se ci atteniamo all’etimologia dato deriva dal latino datum, che significa “cosa data”, “dono”, ci possiamo accorgere facilmente che la semantica del termine presenta una componente decisamente passiva.
I dati sono, per dirla brutalmente, cose che si “ricevono” e che rappresentano uno stato di cose o una caratteristica di uno stato di cose.
I dati possono essere, in questo senso, un numero di protocollo, un codice a barre, il colore dei vostri occhi riportato sulla vostra carta d’identità.
Il dato tuttavia è di per sé una materia prima grezza e va lavorata per poter essere utilizzata come informazione. Vedremo più avanti cosa intendiamo per informazione.
Affinché un dato grezzo possa diventare informazione deve essere:
- raccolto: bisogna elaborare metodi di raccolta che ci permettano l’ottenimento di dati quanto più genuini ed attendibili. Ad esempio, se vogliamo raccogliere dati sulla temperatura, necessiteremo di un termometro ben tarato;
- elaborato: raccogliere solo i dati non basta. Dobbiamo anche elaborarli e per fare questo disponiamo di una scienza, la statistica che si occupa proprio di elaborare i dati affinché da essi si possa trarre un’informazione. Ammesso che i nostri strumenti di raccolta siano ben tarati, cosa voglio farci con questi dati raccolti? Mi serve la statistica per capirlo.
Una volta che il dato viene così raccolto ed elaborato esso è pronto per diventare un’informazione. Veniamo ora alla seconda domanda:
Cosa è un’informazione?
Un’informazione è un dato interpretato. Ovvero un dato che ha assunto significato per un interprete. Ovviamente l’interprete è l’uomo.
Per tornare a uno dei nostri esempi precedenti, se io avessi tra le mani una carta d’identità cinese non saprei interpretare i caratteri che essa contiene, pur comprendendo che essendo un documento per il riconoscimento delle persone, essa contiene per forza dei dati.
Dunque il dato può diventare informazione solo e soltanto se è disponibile e fruibile per un interprete, cioè se significa qualcosa per qualcuno.
Avere un’informazione, tuttavia, non è ancora sufficiente. Un’informazione è un dato compreso, interpretato, comunicabile, ma non è ancora conoscenza.
Cosa è una conoscenza?
Definire cosa sia la conoscenza è un’impresa filosofica fuori dagli scopi del nostro contesto. Qui ci basterà affermare che un’informazione diventa conoscenza quando, grazie a quell’informazione, siamo in grado di prendere decisioni e dare risposte all’ambiente.
La situazione fino a qui descritta può essere rappresentata dalla piramide DIKW (data-information-knoledge-wisdom), riportata di seguito.
Si noti come il passaggio da dato a conoscenza coinvolga sempre di più il soggetto conoscente che, da mero ricevitore del dato, prima lo interpreta (informazione) per poi utilizzarlo strumentalmente (conoscenza).
Dall’oggettivo al soggettivo: una questione di valore
Concentriamoci ora su un’altra considerazione che possiamo svolgere su quanto detto sinora.
Il dato è, come anticipato, una rappresentazione oggettiva di uno stato di cose o una caratteristica di uno stato di cose. Via via che si risale la piramide verso la conoscenza aumenta anche la componente soggettiva. Cosa significa questo? Significa che il modo in cui ci serviamo dell’informazione è strettamente legata a ciò a cui diamo valore.
Gli stessi dati e le stesse informazioni, infatti, possono dare adito ad azioni differenti.
Ad esempio, in seguito ad un prelievo e alle analisi , si potrebbe registrare un certo dato clinico, un numero. Questo è, appunto, semplicemente un dato. Questo dato viene poi allegato ad una cartella clinica e così esso diviene un’informazione dotata di significato, interpretabile e contestuale. Successivamente quella cartella viene letta da un medico, che inserendo quell’informazione nel contesto della sue conoscenze pregresse stabilisce se una terapia è necessaria e, se sì, quale terapia somministrare al paziente.
Ammettiamo però che quella cartella non venga letta da un medico legato al giuramento di Ippocrate, ma ad un altro individuo che tragga vantaggio – per qualche motivo – dalla cattiva salute del paziente. Allora anche in quel caso quel dato, ora informazione, è pronto a diventare conoscenza, perché sarà la base per l’azione di questo secondo e malvagio personaggio.
Questo esempio mostra come la questione del valore dei dati sia in effetti qualcosa di soggettivo, in cui un ruolo attivo viene giocato proprio dall’individuo che dispone dell’informazione che essi custodiscono.
Una questione di saggezza
Alla sommità della piramide DIKW vi è un ulteriore livello, che è la sommità. Ovvero la saggezza (wisdom). Il termine saggezza è un termine antico, che possiamo – convenzionalmente – far risalire ad Aristotele. Il filosofo greco, nell’Etica Nicomachea, si riferiva al concetto di phronesis (φρόνησις, saggezza) definendolo nel seguente modo:
una disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l’agire e concerne le cose che per l’uomo sono buone e cattive
In questo senso, ritornando al modo dei dati, essere saggi significa avere la capacità di utilizzare le informazioni ricavate da essi in conoscenze che abbiano delle finalità funzionali ad agire bene.
Risulta ora chiaro ed evidente come il coinvolgimento del soggetto conoscente-agente e la sua intenzionalità si pongano da un livello molto più alto del dato bruto e grezzo e che, tuttavia, rappresenta le fondamenta dell’intero percorso conoscitivo.